di Goffredo Buccini
Di chi è il corpo delle donne? Di chi sono i capelli di una bambina? Sì, le domande si ripetono immutabili attraverso il tempo, nei mondi dei maschi intabarrati di sottocultura e ubbie religiose. Ma stavolta una bambina — che le cronache hanno chiamato «Fatima» — almeno una risposta aveva provato a darsela. Non di Dio, non della famiglia: suoi. I capelli, con cui si sentiva proprio uguale alle sue compagne di terza media, bella e libera come loro, erano suoi: finché la madre non glieli ha tagliati a zero per punirla e piegarla a portare il velo islamico.
Una storia di periferia e le sue conseguenze
E questa piccola storia della periferia bolognese, che viene dalle case umili dei bengalesi di Borgo Panigale, adesso è destinata a diventare una pietra miliare in Italia, per le scelte e le conseguenze che si è tirata dietro, nel caotico incontro e scontro tra «noi» e «loro»: tra ciò che è o pretende di essere uno Stato di diritto occidentale e il fiume di credenze, tradizioni, precetti che in quello Stato la grande e multicolore immigrazione riversa, spesso arricchendolo, talvolta contrastandolo o sfidandolo, perché si cresce insieme con dolore.
Fatima ha fatto la rivoluzione. Ha parlato in classe, «prof mi aiuti!», non ha chinato la testolina rasata, ha raccontato vessazioni e violenza psicologica accusando i genitori. E con un gesto che vale per coraggio quanto quello delle ragazze del nostro Sud d’una volta che non si piegavano al matrimonio riparatore, ci ha stanato, costringendoci a una scelta. Di qua o di là, perché non esiste una soluzione multiculturale decente quando sono in gioco i diritti dei più deboli, perché le enclavi della sharia in stile britannico non risolvono, anzi, generano mostri. Perché sempre sul corpo delle donne i maschi elevano dogmi, quello è il confine sociale e il termometro della libertà.
Quel mondo a parte nel nostro cortile
Fatima non l’ha studiata la sua rivoluzione. Di certo non sa nulla di Hina, la ragazza pakistana sgozzata dal padre oltraggiato dal suo stile di vita «occidentale», che nel 2006, con la sua morte, ci fece aprire gli occhi forse per la prima volta su un mondo a parte, che sentivamo ancora lontano benché fosse ormai nel nostro cortile (Mohamed, il papà assassino, è stato condannato a 30 anni ma perdonato dalla moglie). E non sa, Fatima, di avere rischiato il medesimo destino di tante ragazze venute dal Bangladesh con le famiglie: la reclusione in casa, lontana dai libri e dalla classe, proprio lei che a scuola è un piccolo fenomeno e sfoggia voti invidiati dalle compagne.
Un anno fa, il ministero dell’Istruzione ha rivelato dati inquietanti sulla dispersione scolastica delle figlie dei migranti. Le bambine bengalesi, assieme alle pachistane, alle egiziane e alle senegalesi, alla soglia dell’adolescenza, vengono ritirate dalla scuola molto più spesso dei coetanei maschi, imprigionate tra le mura domestiche e immesse sul percorso che ne trasforma otto su dieci tra i 15 e i 29 anni in Neet, che non studiano, non lavorano, «e imparano a essere buone madri e buone casalinghe, perché questa percezione è tuttora ancorata profondamente», ammetteva con tristezza Abdellah Redouane, segretario generale della Grande Moschea di Roma e voce politica dialogante dell’Islam italiano. Izzedin Elzir, il giovane imam che ha cambiato la linea dell’Ucoii (la più forte delle associazioni di comunità islamiche in Italia), segnalava allora casi di «figlie non mandate a scuola» a Tor Pignattara, tra i tanti migranti venuti dal Bangladesh. Non molto è cambiato in dodici mesi.
La rivoluzione di una bambina
A tutto questo Fatima non può dare peso. Perché la sua è la rivoluzione di una bambina di 14 anni, che chiedeva solo di essere come le altre: «coi capelli». E tuttavia questa è forse la torsione più clamorosa nei rapporti tra mondi così vicini e così distanti, qui sul nostro pianerottolo: perché la decisione della procura per i minori e dei servizi sociali si spinge, come era logico, più in là della denuncia della bambina rilanciata dalla sua professoressa. Fatima, affidata a una struttura protetta, ha due sorelle appena più grandi: il suo gesto ha cambiato sicuramente anche il loro destino. Ogni irruzione nelle vite degli altri turba, paradossalmente, proprio il nostro amore per la libertà, anche quando è necessaria. Sicché, alla fine, nessuno può davvero festeggiare, perché sofferenza genera certo altra sofferenza, perché quel padre e quella madre di Borgo Panigale, giustamente denunciati per maltrattamenti, non vanno solo puniti ma forse anche curati. Quello stesso Stato che ha saputo soccorrere Fatima, non deve abbandonare i suoi carnefici inconsapevoli.
fonte corriere.it
31 marzo 2017